FESTE, SANTI E BEATI

Per celebrare nella Chiesa, con comune esultanza, la lode della maestà divina

 

L’Ordine non possiede un “proprio” dei santi. Si riportano, a seguire, cenni agiografici e preghiere di santi e cenni storici e preghiere di festività nella cui ricorrenza i membri dell’Ordine – attraverso Rescritto della Sacra Penitenzieria Apostolica – possono lucrare l’indulgenza plenaria.

A queste sono state aggiunte la dedicazione della basilica del Santo Sepolcro (unicamente per il forte legame affettivo con il luogo della Risurrezione del Signore) e i santi o beati tradizionalmente legati all’Ordine o, tra i  membri dell’Ordine, quelli appartenenti a questa Luogotenenza per l’Italia Settentrionale.

 

 ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

(14 settembre)

Dal Martirologio Romano – 14 settembre

Festa dell’esaltazione della Santa Croce, che, il giorno dopo la dedicazione della basilica della Risurrezione eretta sul sepolcro di Cristo, viene esaltata e onorata come trofeo della sua vittoria pasquale e segno che apparirà in cielo ad annunciare a tutti la seconda venuta del Signore.

 

Cenni della festività

La croce, già segno del più terribile fra i supplizi, è per il cristiano l’albero della vita, il talamo, il trono, l’altare della nuova alleanza. Dal Cristo, nuovo Adamo addormentato sulla croce, è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa. La croce è il segno della signoria di Cristo su coloro che nel Battesimo sono configurati a lui nella morte e nella gloria (cfr Rm 6,5). Nella tradizione dei Padri la croce è il segno del Figlio dell’uomo che comparirà alla fine dei tempi (cfr Mt 24,30). La festa dell’esaltazione della croce, che in Oriente è paragonata a quella della Pasqua, si collega con la dedicazione delle basiliche costantiniane costruite sul Golgota e sul sepolcro di Cristo.

(dal Messale Romano)

 

PREGHIERA

O Padre, che hai voluto salvare gli uomini
con la Croce del Cristo tuo Figlio,
concedi a noi che abbiamo conosciuto in terra
il suo mistero di amore,
di godere in cielo i frutti della sua redenzione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

BEATA VERGINE MARIA
REGINA DELLA PALESTINA
patrona dell’Ordine

(25 ottobre – ultima domenica di ottobre)

Cenni della festività e del santuario

Fin dalle origini della Chiesa è presente, nella sua liturgia, il culto della beata Vergine Maria, sia come oggetto di venerazione in se stesso, sia come elemento d’intercessione verso Gesù Cristo. Tale culto conobbe nel tempo sempre maggiore incremento, specie dopo il Concilio di Efeso (413), nel quale la Vergine Maria fu definita “Madre di Dio”.

Tra le tante definizioni, dogmi e concezioni che, nel corso dei secoli, la mariologia impiegò per indicare le corrette forme di venerazione della Vergine, troviamo anche quella di “nostra Signora Regina della Palestina”.

La santa Vergine fu, per la prima volta, invocata con l’appellativo di “nostra Signora Regina della Palestina” dal Patriarca Latino di Gerusalemme mons. Luigi Barlassina (1920-1947) in occasione del proprio ingresso nella diocesi patriarcale e della consacrazione di questa alla Vergine Maria, per invocare il suo patrocinio sull’opera di rinascita che coinvolgeva tutta la Terra Santa in quel particolare frangente storico. Tale appellativo, nell’Anno Santo 1933, incontrò anche l’approvazione della Sacra Congregazione dei Riti.

La festa liturgica di Nostra Signora Regina di Palestina, che ebbe quasi da subito un formulario proprio (1928), era originariamente celebrata nel mese di agosto ma, dopo la riforma liturgica operata dal Concilio Vaticano II, fu fissata al 25 ottobre.

Con decreto Est quidem notum del 21 gennaio 1994, il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II – accogliendo la richiesta del cardinale Carlo Furno, Gran Maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che già aveva approvato il titolo – ha confermato in perpetuum alla beata Vergine Maria il titolo di “nostra Signora Regina della Palestina” e l’ha eletta Patrona presso Dio dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Oltre ad essere ricordato come primo ad avere invocato la Vergine con il titolo di nostra Signora della Palestina, mons. Luigi Barlassina è anche ricordato per avere fondato il santuario mariano di Deir Rafat, intitolato a nostra Signora Regina della Palestina.

Il santuario sorge nella valle del Sorek, nei pressi di Beit Shemesh, a circa trenta chilometri a ovest di Gerusalemme. Progettato dal monaco benedettino dom Maurizio Gisler (1855-1940), i lavori di costruzione iniziarono nel 1925 e giunsero a conclusione il 21 marzo 1928 quando mons. Barlassina ne celebrò la solenne dedicazione.

All’interno del santuario è venerata l’immagine ufficiale della Madonna dipinta in un quadro a olio (un tempo posto sull’altare maggiore ma sostituito – nel 1941 – dall’immagine marmorea ancora oggi visibile): esso rappresenta la santa Vergine, accompagnata da angeli che sorreggono le insegne regali, nell’atto di stendere la propria mano, quasi benedicente, sulla Palestina (sono visibili Haifa e Gerusalemme).

 

PREGHIERA

O Maria Immacolata,
dolce Regina del cielo e della terra,
noi qui prostrati ai piedi del tuo trono regale,
pienamente fiduciosi nella tua bontà e nella tua illuminata potenza,
ti supplichiamo di volgere
uno sguardo compassionevole sulla Palestina,
terra che è tua più di ogni altra,
perché tu l’hai abbellita con la tua nascita, con le tue virtù, con i tuoi dolori;
questa terra dove tu hai dato al mondo il Divino Redentore.

Ricordati che proprio in questa terra
Dio ti ha scelta nostra Madre e dispensatrice di grazie.

Veglia sulla tua patria terrena,
avvolgila di una protezione tutta speciale;
dissipa le tenebre dell’errore là dove ha brillato l’eterno Sole di giustizia.

Fa che si realizzi presto la promessa del tuo Figlio Divino
di formare un solo gregge sotto un solo pastore.

Degnati, infine, di ottenere per noi tutti
la grazia di servire Dio in santità e giustizia
tutti i giorni della nostra vita
sicché, nell’ora della nostra morte,
per i meriti di Gesù e per la tua materna assistenza,
passiamo dalla Gerusalemme terrena a quella celeste.

Così sia.

DEDICAZIONE DELLA BASILICA DEL SANTO SEPOLCRO
DI NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO

(in Terra Santa celebrata il 15 luglio)

Dal Martirologio Romano – 13 settembre

A Gerusalemme, dedicazione delle basiliche che l’imperatore Costantino volle piamente edificare sul monte Calvario e sul sepolcro del Signore.

 

Cenni della basilica

Gli evangelisti ci danno le seguenti indicazioni sul Calvario: era un luogo appena fuori della città, vicino a una porta e a una strada abbastanza frequentata, non lontano da un giardino dove c’era una tomba nuova.

Il vangelo dice anche che il luogo si chiamava Cranio (in latino: Calvaria; in aramaico: Gòlgota).

Il luogo del Calvario e del sepolcro di Gesù sono sempre stati venerati, fin dai primissimi tempi, dalla comunità cristiana residente in Gerusalemme. Gli ebrei, del resto, hanno sempre avuto una grande preoccupazione di conservare il ricordo delle tombe dei personaggi più importanti.

Negli anni 41-44 d. C., la costruzione del “Terzo muro” per opera di Erode Agrippa conglobò nella città anche il luogo del Calvario. Dopo la repressione della rivolta giudaica nel 135, Gerusalemme subì un cambiamento radicale: giudei, samaritani, giudeo-cristiani furono espulsi con la proibizione di ritornarvi. L’imperatore Adriano, nell’intento di cancellare ogni ricordo di una religione, quella giudaica, che aveva già provocato due violente rivolte, con un preciso calcolo politico, si adoperò per far sparire ogni luogo di culto; ma le esperienze religiose legate a tali luoghi erano troppo profonde e radicate perché potessero facilmente scomparire.

Una grotta che esiste sul fianco est del Calvario, riscoperta da poco, si riteneva fosse il luogo della sepoltura di Adamo e fu indicato come il luogo degli inferi in cui discese Gesù dopo la sua morte. Queste idee di origine giudeo-cristiana, circolarono per anni attorno al Calvario. Adriano sopra tale grotta edificò un’edicola a sei colonne con il simulacro di Venere-Ishtar (nel mito essa sarebbe discesa agli inferi a cercare Tammuz per liberarlo) per sostituire l’idea della discesa agli inferi di Gesù, proprio in questo luogo.

Sopra il sepolcro di Gesù invece fu costruito un terrapieno sul quale fu eretto il foro di Aelia Capitolina con tempietti votivi a divinità pagane.

In Gerusalemme era rimasta una comunità cristiana proveniente dal paganesimo. Essa, pur conservando la venerazione di molti luoghi santi, non pensò mai di fissare altrove una tomba di Gesù, appunto perché conservava la memoria di quella coperta dagli edifici pagani. Tale ricordo si conservò fino al tempo di Costantino.

Forte di questa convinzione, il vescovo di Gerusalemme, Macario, durante il primo concilio ecumenico (Nicea 325), invitò l’imperatore Costantino a distruggere il tempio pagano nella Città Santa per ricercarvi sotto il sepolcro di Cristo. Così quello che Adriano aveva realizzato per far dimenticare un luogo sacro, in realtà era servito precisamente per conservarne la memoria. Costantino tolse il simulacro di Venere sopra il Golgota, ma vi costruì nulla. Solo nel VII sec. Fu eretta una cappella detta del “Calvario”. Fu invece liberato dalle macerie il Santo Sepolcro e l’imperatore provvide a erigervi la Basilica della Risurrezione, consacrata nel 335; ce ne dà notizia Eusebio, vescovo di Cesarea Marittima, nella sua Vita di Costantino, scritta verso il 340. I lavori furono diretti da S. Elena, la madre dell’imperatore.

Il complesso architettonico costantiniano si componeva di tre parti. La prima era costituita dall’edicola sulla tomba. La roccia fu tagliata per un ampio tratto e la tomba di Gesù fu isolata dalle altre; attorno vi fu edificata l’edicola, coperta da una cupola e chiamata Anàstasi (in greco: risurrezione). La seconda parte, detta Martyrium, si trovava di fronte all’Anàstasi ed era una basilica a cinque navate. La terza parte era costituita dal Calvario anch’esso isolato dalla roccia circostante e rivestito di marmi che però lasciavano la parte superiore scoperta e, sulla roccia viva, era infissa una croce simbolica.

L’invasione persiana del 614 danneggiò gravemente i vari edifici e, qualche anno dopo, il monaco Modesto, del convento di San Teodosio, divenuto poi patriarca di Gerusalemme, intraprese lavori di restauro.

Il pellegrino Arculfo, che visitò Gerusalemme nel 670, cioè dopo l’invasione araba, ci descrive la tomba la cui pietra di chiusura era stata spezzata dai Persiani e i diversi pezzi erano finiti in vari altari. Sul Calvario era stata edificata una chiesa.

L’invasione araba del 638 non aveva toccato il Santo Sepolcro e i cristiani continuarono a officiarvi pur con alterni momenti di tacite tolleranze e di aperte violenze. Nel 1009, il sultano Hakim, il più intollerante verso il culto cristiano, fece demolire completamente il Santo Sepolcro. Qualche decennio dopo, nel 1048, l’imperatore bizantino Costantino II Monomaco riuscì a ottenere il permesso di restaurare l’edificio sacro. La basilica (il Martyrium) non fu più ricostruita, mentre ci si dedicò a restaurare quel poco dell’Anàstasi che si era salvato. Sul Golgota fu edificata una cappella che copriva la roccia nuda.

Il 15 luglio 1099 i crociati entravano in Gerusalemme. Essi decisero di non ricostruire i monumenti precedenti, molto danneggiati, bensì di strutturare una grande chiesa che racchiudesse in un unico edificio tutti i luoghi essenziali della morte e risurrezione di Gesù.

Fu completamente restaurata la Rotonda (Anàstasi) e l’edicola del Santo Sepolcro. Alla rotonda fu aggiunta la chiesa romanica che terminava con tre cappelle. Da una di queste una larga scalinata scende ancor oggi alla cappella di Sant’Elena. Al Calvario si accedeva per due scale, una dall’interno e l’altra dall’esterno; la cappella fu completamente inglobata nel complesso del grandioso edificio. Ai piedi del Calvario furono sepolti alcuni re franchi. Sulla facciata nuova i crociati costruirono anche il poderoso campanile a cinque piani; le campane rimasero sulla torre finché Saladino dopo il 1187, occupata Gerusalemme, le fece fondere. La nuova basilica fu consacrata il 15 luglio 1149.

L’edificio crociato, vecchio di oltre otto secoli, è giunto fino a noi.

I più importanti lavori di restauro furono eseguiti dai Francescani nel 1500 e agli inizi del 1700, quando fu ricostruita la grande cupola.

Nel 1808 un incendio distrusse completamente l’edicola dell’Anàstasi. L’opera di ricostruzione, nello stile attuale, fu compiuta dai Greci con l’autorizzazione del governo turco.

Dal 1971 i lavori di restauro, a cura delle tre comunità comproprietarie (Cattolici, Greci e Armeni), procedono metodicamente e hanno già raggiunto notevoli risultati.

L’officiatura e la gestione del complesso del Santo Sepolcro sono oggi regolate dallo Statu Quo: nel febbraio 1852 il sultano Abdul Magid emanò un firmano che stabiliva, in linea di massima, il mantenimento delle condizioni di fatto (statu quo) in cui si trovavano le diverse comunità cristiane alla data del decreto.

(da Guida biblica e turistica della Terra Santa, a cura di P. Acquistapace, IPL, 2000)

 

PREGHIERA

Signore Gesù Cristo,
che per noi hai voluto sottoporti alla morte
e, dopo essere stato deposto nel sepolcro,
risuscitare il terzo giorno,
concedi a noi, tuoi fedeli,
che celebriamo la memoria della dedicazione
della basilica del Santo Sepolcro,
di partecipare insieme con te alla gloria della risurrezione.
Tu sei Dio e vivi e regni con Dio Padre,
nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

SAN PIO X, PAPA

(21 agosto)

Dal Martirologio Romano – 21 agosto

Memoria di san Pio X, papa, che fu dapprima sacerdote in parrocchia e poi vescovo di Mantova e patriarca di Venezia. Eletto, infine, Pontefice di Roma, si propose come programma di governo di ricapitolare tutto in Cristo e lo realizzò in semplicità di animo, povertà e fortezza, promuovendo tra i fedeli la vita cristiana con la partecipazione all’Eucaristia, la dignità della sacra liturgia e l’integrità della dottrina.

 

Riferimenti storici

Giuseppe Melchiorre Sarto nacque il 2 giugno 1835 a Riese, villaggio in provincia e diocesi di Treviso. […].

Avendo egli dato precocemente segni di vocazione sacerdotale, il 22 agosto 1850 il patriarca di Venezia, card. Jacopo Monico, originario di Riese, comunicò al vicario generale di Treviso di avere assegnato al giovane Sarto “una piazza gratuita” a sua disposizione nel seminario extra-diocesano di Padova. Rivestito dell’abito talare nella chiesa del paese natale, dimorò dal 1850 al 1858 in quell’illustre istituto di studi ecclesiastici e umanistici, seguendovi i corsi per due anni di lettere classiche, per altrettanti di filosofia e per quattro di teologia. […]

Fu ordinato sacerdote il 18 settembre 1858 dal vescovo di Castelfranco Veneto.

Ebbe la prima destinazione, quale cappellano, a Tombolo, in diocesi di Treviso e provincia di Padova, dove arrivò il 29 novembre 1858. Si fece notare e amare per il suo zelo, per la generosa dedizione al ministero pastorale, per la larghezza verso i poveri. Continuò a studiare con passione le discipline sacre, specialmente in ore sottratte al riposo notturno, acquistando libri a prezzo di sacrifici. Scriveva tutte le prediche che pronunciava e andò acquistando una certa fama nella regione come oratore, chiamato in più luoghi e una volta fino in cattedrale.

[…] Nel 1867 fu nominato parroco di Salzano in provincia di Venezia. Entrò in forma privata, presentandosi al suo popolo in chiesa per la Messa domenicale il 14 luglio dello stesso anno. Si conquistò, anche qui, gli animi con la predicazione, l’azione caritatevole e la larga servizievole umanità, che non si tirava mai indietro da qualunque specie di richiesta e bisogno. Ebbe cura particolare dell’istruzione catechistica dei fanciulli, del canto e della musica sacra; provvide con impegno a eseguire lavori di restauro e di abbellimento della chiesa, procurando con ingegnose industrie i mezzi finanziari. Particolare abnegazione contrassegnò la sua dedizione durante l’epidemia di colera del 1873.

Nella primavera del 1875 fu nominato canonico della cattedrale di Treviso. Lasciò Salzano il 16 settembre, raggiungendo Treviso dove gli fu affidato l’ufficio di cancelliere della curia vescovile. […]. In tutto il servizio prestato in curia, dimostrò sagacia e destrezza, acquistando vasta esperienza nel maneggio degli affari ecclesiastici e di quelli misti, particolarmente complicati nel regime civile ancora in assestamento. Nell’ufficio che ebbe aggiunto, di direttore spirituale dei giovani del seminario diocesano, impegnò con passione le sue energie e risorse sacerdotali.

Sulla fine d’agosto del 1884 gli pervenne la notizia della sua nomina a vescovo di Mantova. […]. Il 12 settembre ebbe la conferma della volontà di Leone XIII e il 16 novembre fu consacrato a Roma, nella chiesa di Sant’Apollinare, dal mantovano Lucido Maria Parocchi, cardinale vicario. […]. Attese l’exequatur a Treviso, da dove partì il 18 aprile 1885 per fare nel giorno stesso il suo ingresso nella città affidata alle sue cure.

Il governo si presentava difficile perché nel territorio della diocesi fermentavano i sedimenti rivoluzionari risorgimentali e si delineavano i primi moti sociali; il clero era irrequieto e non mancavano dolorose defezioni. Mise in atto progressivamente principi pastorali che anticiparono, poi, quelli seguiti nei maggiori governi. […].

Il 15 giugno 1893 fu preconizzato patriarca di Venezia, tre giorni dopo la creazione a cardinale che Leone XIII aveva voluto immediata e antecedente all’entrata nell’illustre sede, per significare che l’onore gli era conferito per meriti personali. Da Venezia restò escluso diciassette mesi, non riconoscendo il governo italiano l’eletto della Santa Sede. […].

Il patriarca Sarto fece il suo ingresso solenne, partendo da Treviso, il 24 novembre 1894, tra l’entusiasmo popolare.

L’azione da lui intrapresa anche qui trova unità nell’ispirazione essenzialmente religiosa e si svolge lungo linee già segnate. […].

Conquistò letteralmente l’animo del popolo con l’affabilità congiunta alla dignità delle maniere e, soprattutto, con l’inesauribile carità che gli fece contrarre più volte debiti, fino alla partenza per il conclave nel 1903.

Lasciata Venezia il 26 luglio, entrò in conclave il 31, con altri sessantuno cardinali. Gli scrutini iniziarono il 1° agosto e furono sette. Nel quarto, la sera del 2 agosto, ebbe ventiquattro voti contro i trenta dati al card. Rampolla, sul quale nello scrutinio precedente era stata pronunziata un’esclusiva in nome dell’imperatore d’Austria. Nel quinto e sesto, del 3 agosto, cominciò ad avere la maggioranza con ventisette e trentacinque voti; nel settimo, con cinquanta voti, superò i due terzi richiesti per l’elezione. Sgomento, aveva supplicato i colleghi di essere lasciato da parte, ma si piegò ad accettare, piangendo. Diede la sua prima benedizione Urbi et orbi dalla loggia interna di S. Pietro, secondo un voto espresso dal collegio cardinalizio. Fu coronato il 9 agosto nella basilica Vaticana.

Gli atti fondamentali di governo si svolsero con rapidità. Il giorno stesso dell’elezione designò pro-segretario di Stato il segretario del conclave mons. Raffaele Merry del Val, spagnolo di nascita, che il 18 ottobre fu nominato segretario e creato cardinale nel concistoro del 9 novembre. Il 4 ottobre pubblicò la sua prima enciclica: “E supremi apostolatus Cathedra”, dichiarando i capisaldi del suo programma, compendiato nel motto: “Instaurare omnia in Christo”. […]. Si disegna così, dall’origine, il duplice aspetto dell’azione pontificale: l’asserzione dei diritti supremi di Cristo di fronte al mondo, l’alimento della fede e della pietà nell’interno della Chiesa.

[…] Pose la perfezione sacerdotale a fondamento, imponendo una severa preparazione di studi, la disciplina, la preghiera; rinnovò i seminari e in Italia istituì quelli regionali; prescrisse rigorose norme per le ordinazioni. Il 28 luglio 1906 pubblicò l’enciclica “Pieni l’animo” sulla disciplina e riforma del clero e, il 4 agosto 1908, cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale, datò l’esortazione “Haerent animo”, originalmente tutta scritta di suo pugno, per impegnare alla santità gli eletti al ministero sacro. Per il governo della Chiesa promulgò una riforma della curia romana, estese i poteri della Segreteria di Stato, definì le attribuzioni dei dicasteri, sfrondando la selva delle giurisdizioni contrastanti. Un’opera di più grande mole intraprese per la codificazione del diritto canonico che portò, dopo la sua morte, alla pubblicazione del nuovo codice. […].

Sull’istruzione religiosa […] stabilì le norme catechistiche. Il testo del nuovo catechismo […] si diffuse largamente nel mondo cattolico. Estese, quasi subito dopo la sua elezione, la riforma della musica sacra […].

Il moto eversivo del sacro deposito della fede si era già scoperto, con pericolose infiltrazioni, nell’interno della Chiesa dagli ultimi anni del pontificato di Leone XIII. La demolizione, iniziata dai libri dell’Antico e Nuovo Testamento, minacciare il nucleo centrale della Rivelazione, così da negare nei suoi termini estremi la divinità di Cristo e la realtà trascendente di Dio. La lotta intrapresa da Pio X contro queste innovazioni teologiche radicali, denotate con il temine di modernismo, durò aspra per tutto il primo lustro di pontificato e culminò con l’enciclica “Pascendi Dominici gregis” dell’8 settembre 1907.

[…] In Italia procedette a una ricostituzione su nuove linee dell’azione dei cattolici […]. A questi concesse deroghe al divieto di partecipare alla vita politica, a partire dalle elezioni del 1904. […].

Il 3 maggio 1907, con la lettera apostolica Quam multa, indirizzata al Patriarca di Gerusalemme, riformò l’Ordine del Santo Sepolcro e ne riservava il Gran Magistero alla persona del Romano Pontefice.

Nella primavera del 1913 cadde malato abbastanza seriamente per una bronchite e l’aggravarsi dei suoi disturbi uricemici. Tenne la sua ultima allocuzione il 25 maggio 1914 per la creazione di tredici nuovi cardinali, tra i quali il suo successore, pronunziando parole che poterono poi apparire profetiche.

[…] Spirò all’1,16 del 21 agosto 1914, nell’ottantesimo anno e dopo undici di pontificato. […].

Le virtù della semplicità, povertà e fortezza apparvero moralmente le più caratteristiche in Pio X e formarono, insieme alle altre virtù cardinali e teologali, esercitate in misura eroica, la sua santità.  La fama di questa fu largamente propagata durante la vita, in particolare dopo l’ascesa al pontificato. Si accrebbe progressivamente dal momento della morte, tanto da indurre i cardinali residenti in curia a promuovere la causa e a nominare un postulatore il 14 febbraio 1923. […]. La causa di beatificazione e canonizzazione fu introdotta presso la Congregazione dei Riti il 12 febbraio 1943. Seguirono i processi apostolici, tra il 1943 e il 1946. Il 3 settembre 1950 fu emanato il decreto di approvazione delle virtù eroiche; l’11 febbraio e il 4 marzo 1951 quelli d’approvazione dei due miracoli proposti per la beatificazione e del Tuto.

Pio XII procedette alla beatificazione il 3 giugno 1951 e alla canonizzazione il 29 maggio 1954. […].

Il 17 febbraio 1952 la salma ebbe collocazione definitiva nella basilica Vaticana, sotto l’altare della cappella della Presentazione.

(Nello Vian in Bibliotheca Sanctorum, vol. X)

 

PREGHIERA

O Dio,
che per difendere la fede cattolica
e unificare ogni cosa nel Cristo
hai animato del tuo spirito di sapienza e di fortezza
il papa san Pio X,
fa che alla luce dei suoi insegnamenti e del suo esempio,
giungiamo al premio della vita eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

SAN PAOLO VI, PAPA

(29 maggio)

Riferimenti storici

Secondogenito di Giorgio e di Giuditta Alghisi, Giovanni Battista Montini nacque a Concesio, un piccolo paese del Bresciano, il 26 settembre 1897. Di famiglia cattolica molto impegnata sul piano politico e sociale, tra il 1903 e il 1915 frequentò le elementari, il ginnasio e parte del liceo nel collegio Cesare Arici, tenuto a Brescia dai gesuiti, concludendo gli studi secondari presso il liceo statale cittadino nel 1916.

Nell’autunno di quell’anno entrò nel seminario di Brescia e quattro anni dopo, il 29 maggio 1920, ricevette in cattedrale l’ordinazione sacerdotale dal vescovo Giacinto Gaggia. Dopo l’estate si trasferì a Roma, dove seguì i corsi di filosofia della Pontificia Università Gregoriana e quelli di lettere dell’università statale, laureandosi poi in diritto canonico nel 1922 e in diritto civile nel 1924. Intanto, in seguito a un incontro con il sostituto della Segreteria di Stato Giuseppe Pizzardo nell’ottobre 1921, fu destinato al servizio diplomatico e per alcuni mesi del 1923 lavorò come addetto alla nunziatura apostolica di Varsavia.

Entrato nella Segreteria di Stato il 24 ottobre 1924, l’anno dopo vi fu nominato minutante. In quel periodo partecipò da vicino all’attività degli studenti universitari cattolici organizzati nella Fuci, della quale fu assistente ecclesiastico nazionale dal 1925 al 1933. Nel frattempo, agli inizi del 1930, era stato nominato segretario di Stato il cardinale Eugenio Pacelli, di cui egli divenne progressivamente uno dei più stretti collaboratori, finché nel 1937 fu promosso sostituto della Segreteria di Stato. Ufficio che mantenne anche quando a Pacelli — che fu eletto Papa nel 1939 prendendo il nome di Pio XII — successe il cardinale Luigi Maglione, morto nel 1944. Otto anni più tardi, nel 1952 divenne prosegretario di Stato per gli affari ordinari.

Fu lui a preparare l’abbozzo dell’estremo ma inutile appello di pace che Papa Pacelli lanciò per radio il 24 agosto 1939, alla vigilia del conflitto mondiale: «Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra».

Il 1° novembre 1954 gli arrivò inattesa la nomina ad arcivescovo di Milano, dove fece ingresso il 6 gennaio 1955. Alla guida della Chiesa ambrosiana si impegnò a fondo sul piano pastorale, dedicando una speciale attenzione ai problemi del mondo del lavoro, dell’immigrazione e delle periferie, dove promosse la costruzione di oltre cento nuove chiese. Dal 5 al 24 novembre 1957 tenne una capillare «Missione per Milano», sottoscrivendo nell’occasione un significativo «invito» rivolto «ai fratelli lontani».

Primo cardinale a ricevere la porpora da Giovanni XXIII, il 15 dicembre 1958, partecipò al concilio Vaticano II, dove sostenne apertamente la linea riformatrice. Morto Roncalli, il 21 giugno 1963 fu eletto Papa e scelse il nome di Paolo, con un chiaro riferimento all’apostolo evangelizzatore.

Nei primi atti del pontificato volle sottolineare in ogni modo la continuità con il predecessore, in particolare con la decisione di riprendere il Vaticano II, che si riaprì il 29 settembre 1963. Condusse i lavori conciliari con attente mediazioni, favorendo e moderando la maggioranza riformatrice, fino alla conclusione avvenuta l’8 dicembre 1965 e preceduta dalla reciproca revoca delle scomuniche intercorse nel 1054 tra Roma e Costantinopoli.

Al periodo del concilio risalgono anche i primi tre dei nove viaggi che nel corso del pontificato lo portarono a toccare i cinque continenti (dieci furono invece le visite compiute in Italia): nel 1964 si recò in Terra santa e poi in India, e nel 1965 a New York, dove pronunciò uno storico discorso davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite. In quello stesso anno iniziò una profonda azione di modifica delle strutture del governo centrale della Chiesa, creando nuovi organismi per il dialogo con i non cristiani e i non credenti, istituendo il Sinodo dei vescovi — che durante il suo pontificato tenne quattro assemblee ordinarie e una straordinaria tra il 1967 e il 1977 — e attuando la riforma del Sant’Uffizio.

La sua volontà di dialogo all’interno della Chiesa, con le diverse confessioni e religioni e con il mondo fu al centro della prima enciclica Ecclesiam suam del 1964, seguita da altre sei: tra queste sono da ricordare la Populorum progressio del 1967 sullo sviluppo dei popoli, che ebbe una risonanza molto ampia, e la Humanae vitae del 1968, dedicata alla questione dei metodi per il controllo delle nascite, che suscitò numerose polemiche anche in molti ambienti cattolici. Altri documenti significativi del pontificato sono la lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971 per il pluralismo dell’impegno politico e sociale dei cattolici, e l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 sull’evangelizzazione del mondo contemporaneo.

Impegnato nel non facile compito di attuare e applicare le indicazioni emerse dal concilio, impresse un’accelerazione al dialogo ecumenico attraverso incontri e iniziative rilevanti. L’impulso rinnovatore nell’ambito del governo della Chiesa si tradusse poi nella riforma della Curia nel 1967, della corte pontificia nel 1968 e del conclave nel 1970 e nel 1975. Anche nel campo della liturgia svolse una paziente opera di mediazione per favorire il rinnovamento raccomandato dal Vaticano II, senza tuttavia riuscire a evitare le critiche dei settori ecclesiali più avanzati e la tenace opposizione dei conservatori, tra i quali l’arcivescovo francese Marcel Lefebvre, sospeso a divinis nel 1976.

Con la creazione di 144 porporati, la maggior parte dei quali non italiani, in sei concistori rimodellò notevolmente il collegio cardinalizio e ne accentuò il carattere di rappresentanza universale. Durante il pontificato sviluppò inoltre in modo considerevole l’azione diplomatica e la politica internazionale della Santa Sede, adoperandosi in ogni modo per la pace — anche grazie all’istituzione di una apposita giornata mondiale celebrata dal 1968 il 1° gennaio di ogni anno — e proseguendo il dialogo con i Paesi comunisti dell’Europa centrale e orientale (la cosiddetta Ostpolitik) avviato da Giovanni XXIII.

Nel 1970, con una decisione senza precedenti, dichiarò dottori della Chiesa due donne, santa Teresa d’Ávila e santa Caterina da Siena. E nel 1975 — dopo il giubileo straordinario tenuto nel 1966 per la conclusione del Vaticano II e l’Anno della fede celebrato tra il 1967 e il 1968 per il diciannovesimo centenario del martirio dei santi Pietro e Paolo — indisse e celebrò un Anno santo.

La fase conclusiva del pontificato fu segnata drammaticamente dalla vicenda del sequestro e dell’uccisione del suo amico Aldo Moro, per il quale nell’aprile 1978 indirizzò un appello agli «uomini delle Brigate Rosse» chiedendone invano la liberazione. Il 29 giugno successivo celebrò in San Pietro il quindicesimo dell’elezione. Morì la sera del 6 agosto, nella residenza di Castel Gandolfo, quasi improvvisamente, dopo un giorno di permanenza a letto. Dopo il funerale celebrato il 12 in piazza San Pietro, fu sepolto nella basilica vaticana.

L’11 maggio 1993 è stata avviata nella diocesi di Roma la causa di canonizzazione. Il 9 maggio 2014 Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto riguardante il miracolo attribuito alla sua intercessione.

Paolo VI è stato dichiarato beato il 19 ottobre 2014 da Papa Francesco.

È stato canonizzato da Papa Francesco in Piazza San Pietro il 14 ottobre 2018.

(da L’Osservatore Romano del 19 ottobre 2014)

 

PREGHIERA

O Dio, che hai affidato la tua Chiesa
alla guida del papa san Paolo VI,
coraggioso apostolo del vangelo del tuo Figlio,
fa’ che, illuminati dai suoi insegnamenti,
possiamo cooperare con te
per dilatare nel mondo la civiltà dell’amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo,
tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

 

SAN GIUSEPPE DI ARIMATEA

(31 agosto)

Dal Martirologio Romano – 31 agosto

A Gerusalemme, commemorazione dei santi Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che raccolsero il corpo di Gesù sotto la croce, lo avvolsero nella sindone e lo deposero nel sepolcro. Giuseppe, nobile decurione e discepolo del Signore, aspettava il regno di Dio; Nicodemo, fariseo e principe dei Giudei, era andato di notte da Gesù per interrogarlo sulla sua missione e, davanti ai sommi sacerdoti e ai Farisei che volevano arrestare il Signore, difese la sua causa.

Riferimenti storici

I pochi riferimenti storici si desumono dai quattro Evangelisti allorquando narrano la deposizione e la sepoltura di Gesù. Originario di Arimatea (probabilmente Ramathain, la patria di Samuele, I Sam, 1,1), di condizione assai agiata, era un discepolo di Gesù, ma come Nicodemo non aveva dimostrato la propria fede per paura dei Giudei (Gv 19,38), fino al periodo della Passione. Tuttavia durante il processo di Gesù, partecipando alle sedute del sinedrio, per il senso di giustizia che l’animava e per l’aspettativa del Regno di Dio, aveva osato dissentire dai suoi colleghi non approvando le risoluzioni e gli atti di quell’assemblea (Lc 23,50 sg.). Anzi, maggior coraggio dimostrò dopo la morte del Maestro, quando arditamente, come si esprime Marco (15,43), si presentò a Pilato per ottenere la sua salma e darle degna sepoltura, impedendo così che fosse gettata in una fossa comune, con quella dei due ladroni. Nel pietoso intento, Giuseppe trovò collaborazione, oltre che nelle pie donne, anche in Nicodemo, accorso portando con sé aromi (mirra e aloe). Giuseppe, secondo quanto detto in Matteo (27,59), aveva comprato una bianca sindone. I due coraggiosi discepoli, preso il corpo di Gesù, lo avvolsero in bende profumate e lo deposero nel sepolcro nuovo, scavato nella roccia, che Giuseppe si era fatto costruire nelle vicinanze del Calvario. Era il tramonto quando Giuseppe “rotolata una grande pietra alla porta del sepolcro andò via” (Mt 27,60).

La storia ha qui termine, ma il personaggio non fu trascurato dalla leggenda e in primo luogo dagli anonimi autori degli apocrifi. Nello pseudo-Vangelo di Pietro (sec. II) la narrazione non si distacca da quella del Vangelo; l’unica differenza sta nel fatto che Giuseppe chiese a Pilato il corpo di Cristo ancora prima della Crocifissione (II, 3; VI, 23-24). Ricchi di nuovi fantastici racconti sono invece gli Atti di Pilato o Vangelo di Nicodemo (sec. V) in cui si narra che i Giudei rimproverarono a Nicodemo e a Giuseppe il loro comportamento in favore di Gesù e che proprio per questo, Giuseppe fu imprigionato, ma, miracolosamente liberato, fu ritrovato poi ad Arimatea. Riportato a Gerusalemme narrò la prodigiosa liberazione (XI, 3 sgg.; XII, 1 sgg.; XV, 1 sgg.). Ancora più singolare è una narrazione denominata Vindicta Salvatoris (sec. IV?), che ebbe poi grandissima diffusione in Inghilterra ed Acquitania. Anzi, a questo opuscoletto si è voluto dare un intento polemico contro Roma, giacché il Vangelo sarebbe stato diffuso in quelle zone non da missionari romani, ma da discepoli di Gesù.

Molte leggende, infine, furono create intorno alla figura di Giuseppe d’Arimatea.

Il culto più antico di s. Giuseppe sembra stabilito in Oriente. In alcuni calendari georgiani del sec. X la festa è menzionata il 30 o 31 agosto o anche la terza domenica dopo Pasqua. Per i Greci, invece, la commemorazione era il 31 luglio. In Occidente fu particolarmente venerato a Glastonbury in Inghilterra, ove, secondo una tradizione, avrebbe fondato il primo oratorio. Nel Martirologio Romano fu inserito al 17 marzo dal Baronio. Al compilatore degli Annali l’inserimento fu suggerito dalla venerazione che i canonici della basilica vaticana davano ad un braccio del santo, proprio il 17 marzo. Al tempo del Baronio la più antica documentazione della reliquia era uno scritto del 1454. Tuttavia nessun martirologio occidentale prima di tale data faceva menzione di culto a s. Giuseppe d’Arimatea.

(G. D. Gordini in Bibliotheca Sanctorum, vol. VI)

 

PREGHIERA

O Dio, che nella tua infinita bontà
hai scelto il beato Giuseppe d’Arimatea
per seppellire in un sepolcro nuovo
il corpo del tuo amatissimo Figlio deposto dalla croce,
fa che noi, fatti simili
e sepolti insieme con lo stesso tuo Figlio nella morte,
risorgiamo insieme con lui alla vita che non ha fine.
Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

SAN NICODEMO

(31 agosto)

Dal Martirologio Romano – 31 agosto

A Gerusalemme, commemorazione dei santi Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che raccolsero il corpo di Gesù sotto la croce, lo avvolsero nella sindone e lo deposero nel sepolcro. Giuseppe, nobile decurione e discepolo del Signore, aspettava il regno di Dio; Nicodemo, fariseo e principe dei Giudei, era andato di notte da Gesù per interrogarlo sulla sua missione e, davanti ai sommi sacerdoti e ai Farisei che volevano arrestare il Signore, difese la sua causa.

Riferimenti storici

Fu Dottore della Legge e membro del Sinedrio. Ne parla S. Giovanni nel suo Vangelo (3, 1-15; 7, 50 sgg.; 19, 39 sg.).

Durante la permanenza di Gesù a Gerusalemme, in occasione della prima Pasqua (anno 28 della nostra era), Nicodemo, impressionato dai miracoli compiuti da Gesù, lo andò a trovare per un colloquio chiarificatore, “di notte”, e tale circostanza è variamente intesa: per non compromettere la sua fama o per timore; è da ricordare tuttavia che quella era l’ora più conveniente per un lungo colloquio di grande importanza.

Come di consueto S. Giovanni riferisce appena le battute essenziali del colloquio, le idee principali: i fatti osservati ti manifestano Messia, dice Nicodemo a Gesù; ebbene, di quale natura è la tua missione? Con quali mezzi la compirai? Si tratta dell’impero vivamente atteso dai Giudei con una rivincita definitiva sui pagani? Gesù rettifica questa erronea aspettativa del giudaismo ufficiale: il regno di Dio è soltanto dominio di Dio sulle anime; per entrarvi è necessario rinascere spiritualmente, rinnovare il proprio animo; è quanto chiaramente hanno preannunziato i profeti: “Tu sei maestro in Israele, e lo ignori?”. Gesù compirà la sua missione, immolando sé stesso sulla croce.

In uno dei tentativi, fatti dal Sinedrio negli ultimi mesi della vita di Gesù, per impossessarsi violentemente di lui, Nicodemo cerca di richiamare i suoi colleghi alla ragione: bisogna pure ascoltare una persona prima di condannarla! La risposta dei fanatici è scoraggiante: “Saresti anche tu un Galileo? Cerca pure e ti renderai conto che dalla Galilea non sorge profeta alcuno” (7, 45-52). Infine, sul Golgota, con Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo provvede alla sepoltura di Gesù (19, 38-42). Egli porta “circa cento libbre di mirra e di aloe”: cioè una grande quantità, circa 30 kg.

Niente altro sappiamo di Nicodemo.

Secondo il prete Luciano (Ep. Luciani, in PL, XII, col. 807), che nel 415 avrebbe scoperto le reliquie insieme a quelle di s. Stefano, Nicodemo sarebbe stato battezzato dagli apostoli Pietro e Giovanni; quindi maltrattato e scacciato dai giudei che l’avrebbero anche ucciso senza l’intervento di Gamaliele, suo parente; questi lo avrebbe accolto nel suo possesso di Kefaz-Gamla, dove morì e fu sepolto.

Queste notizie non hanno alcun fondamento (per esse cf. BSS, I, coll. 77 sg.), come nulla di vero c’è nel cosiddetto Evangelium Nicodemi, titolo moderno (ca. del sec. XIV) di due narrazioni effettivamente distinte: Acta Pilati e Descensus Christi ad inferos, ambedue del IV secolo.

Nicodemo è ricordato nei martirologi in occasione dell’invenzione delle reliquie dei Ss. Stefano, Gamaliele, e Abibo posta dal Martirologio Romano al 3 agosto, dai menologi bizantini e da quello del card. Sirleto al 15 settembre.

Una leggenda cristiana ci presenta Nicodemo come scultore: gli si attribuisce il Volto Santo, assai venerato a Lucca.

(F. Spadafora in Bibliotheca Sanctorum, vol. IX)

 

PREGHIERA

O Dio, che nella tua infinita bontà
hai scelto il beato Nicodemo
per seppellire in un sepolcro nuovo
il corpo del tuo amatissimo Figlio deposto dalla croce,
fa che noi, fatti simili
e sepolti insieme con lo stesso tuo Figlio nella morte,
risorgiamo insieme con lui alla vita che non ha fine.
Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

SANT’ELENA, IMPERATRICE

(18 agosto)

Dal Martirologio Romano – 18 agosto

A Roma sulla via Labicana, santa Elena, madre dell’imperatore Costantino, che si adoperò con singolare impegno nell’assistenza ai poveri; piamente entrava in chiesa mescolandosi alle folle e in un pellegrinaggio a Gerusalemme alla ricerca dei luoghi della Natività, della Passione e della Risurrezione di Cristo onorò il presepe e la croce del Signore costruendo venerande basiliche.

Riferimenti storici

Madre di Costantino imperatore. I suoi dati biografici sono molto scarsi e incerti. Nacque verso la metà del secolo III forse a Drepanum in Bitinia, secondo la testimonianza di Procopio, il quale così spiega il cambiamento del nome di quella città in Elenopoli, fatto appunto da Costantino Magno per onorare la città natale di sua madre.

Discendeva da umile famiglia e, se si deve credere alla tradizione riferita da s. Ambrogio, esercitava l’ufficio di stabularia quando fu conosciuta e sposata da Costanzo Cloro. Nel 293 Costanzo fu nominato Cesare ed Elena dovette ritirarsi perché ragioni di stato costringevano il nuovo imperatore a sposare Teodora, figliastra di Massimiano Erculeo. Rimase umilmente nell’ombra fino al 306; succeduto al padre, Costantino Magno la chiamò a corte, le diede il titolo di Augusta, le permise di attingere liberamente al tesoro imperiale, fece incidere il suo nome e la sua immagine sulle monete e la onorò con tutte le prerogative attinenti al suo alto rango.

Di questa sua nuova posizione Elena si servì per fare del bene: in occasione di un suo viaggio in Oriente, secondo la testimonianza di Eusebio di Cesarea, passò dappertutto “con una certa regale sollecitudine e provvidenza”, beneficando generosamente persone di ogni ceto e intere città. La sua bontà generosa arrivava a ogni specie di bisognosi e indigenti; ai poveri donò vesti e denaro; fece liberare molti condannati alle carceri o alle miniere, molti ne fece ritornare dall’esilio.

Elena visse esemplarmente la sua fede nell’esercizio delle virtù cristiane e nella pratica di buone opere. Insigni furono la sua pietà e umiltà, tanto da non disdegnare di partecipare, con abiti modesti, alla sacra liturgia, mescolandosi tra la folla dei fedeli; spesso poi invitava dei poveri alla sua mensa e li serviva con le proprie mani.

Spinta da un grande amore verso il Redentore, nel 326 intraprese un pellegrinaggio in Palestina per visitare i luoghi santificati dalla sua vita terrena. In questa occasione, si adoperò per la costruzione della basilica della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul monte degli Ulivi, che poi Costantino ornò e dotò splendidamente.

Una tradizione (che rimonta alla fine del sec. IV, poiché già conosciuta da s. Ambrogio) riferisce che Elena, scavando sul Golgota per purificare quel luogo dagli edifici pagani fattivi costruire dai romani, avrebbe ritrovato la croce su cui fu inchiodato Gesù, insieme con altri strumenti della Passione, e avrebbe spinto il figlio a costruire la basilica dell’Anastasis. Bisogna però dire che Eusebio, coevo e ben edotto sulle cose di Palestina, pur parlando diffusamente di questa basilica, non accenna minimamente a Elena, anzi, sembra escludere completamente ogni sua relazione con essa, es. Cirillo di Gerusalemme (313-387), oriundo del luogo, pur attestando a più riprese nei suoi discorsi che le reliquie della S. Croce erano già sparse in tutto il mondo, ignora assolutamente che essa sia stata ritrovata da Elena.

Assistita dal figlio, Elena morì verso il 328-30, all’età di circa ottant’anni, in un luogo sconosciuto. Il suo corpo, però, fu trasportato a Roma e sepolto sulla via Labicana, ad duas lauros, in un sarcofago di porfido, collocato dentro uno splendido mausoleo a forma circolare, con cupola. Subito dopo la morte, Elena fu onorata come santa; Eusebio la dice “degna di sempiterna memoria” per la sua vita cristiana; s. Ambrogio la definisce “grande donna” e “di santa memoria” e s. Paolino da Nola ne esalta la grande fede. I pellegrini che venivano a Roma nel sec. VII per venerare le tombe dei martiri, non trascuravano di visitare anche il sepolcro di “santa” Elena.

Il suo culto si diffuse largamente in Oriente e in Occidente; Usuardo la introdusse per primo nel suo Martirologio al 18 agosto e di là passò nel Martirologio Romano; i Greci invece la venerano il 21 maggio, insieme con il figlio Costantino.

(A. Amore in Bibliotheca Sanctorum, vol. IV)

 

PREGHIERA

O gloriosa Sant’Elena,
con l’angoscia e la devozione
con le quali bramasti la Croce di Cristo
ti imploro così che tu mi possa donare la grazia di Dio
per sopportare pazientemente
i travagli della vita quotidiana.
Attraverso la tua protezione e intercessione
possa essere in grado di trovare e trasportare la Croce di Gesù
che Dio ha riposto su di me,
in modo che lo serva in vita
e possa godere della sua gloria per sempre. Amen.

SAN LUIGI IX, RE
–  SAN LUDOVICO  –

(25 agosto)

Dal Martirologio Romano – 25 agosto

San Luigi IX, re di Francia, che la fede attiva sia in tempo di pace sia nel corso delle guerre intraprese per la difesa dei cristiani, la giustizia nel governo, l’amore verso i poveri e la costanza nelle avversità resero celebre. Unitosi in matrimonio, ebbe undici figli che educò ottimamente e nella pietà. Per onorare la croce, la corona di spine e il sepolcro del Signore impegnò mezzi, forze e la stessa vita. Morì presso Tunisi sulla costa dell’Africa settentrionale colpito dalla peste nel suo accampamento.

Riferimenti storici

Luigi re di Francia è uno dei personaggi più noti del Medio Evo: soltanto Giovanna d’Arco può offrire allo storico francese una situazione altrettanto favorevole dal punto di vista documentario. Dobbiamo questa abbondanza d’informazioni prima di tutto al fatto che egli fu re del più potente regno d’Occidente, proprio nel momento in cui la potestà regale in Francia si andava considerevolmente rafforzando. Della sua opera di governo, quindi, rimangono numerose notizie scritte.

Ma le informazioni più preziose le dobbiamo alla venerazione e all’amore che la santità del re suscitava in quelli che lo avvicinavano. Negli anni che seguirono la sua morte (1270) e la sua canonizzazione (1297) costoro ebbero cura di tramandare per iscritto i propri ricordi; abbiamo quindi almeno quattro Vitae di Luigi che ci offrono prevalentemente il ritratto dell’uomo privato, della sua vita spirituale, delle sue virtù, del suo carattere.

Questi testimoni sono Goffredo di Beaulieu, domenicano, confessore del re per vent’anni, che scrisse di lui nel 1272-73; Guglielmo di Chartres, anch’egli domenicano e, come Goffredo, familiare del re, che volle completare il primo testo fra il 1276 e il 1282; Guglielmo di Saint-Pathus, francescano, confessore della regina Margherita, vedova del re, del quale, dopo il 1297, compilò una dettagliatissima storia; e infine, Giovanni di Joinville, un signore della Champagne, amico intimo del sovrano, la cui Storia di San Luigi, compilata tra il 1298 e il 1309, è uno dei libri più raffinati del Medio Evo. Dobbiamo poi ricordare che ci rimangono alcuni stralci del processo di canonizzazione, custoditi negli Archivi Nazionali di Parigi e negli Archivi Vaticani. […]

Nato nel 1214, Luigi IX divenne re di Francia nel 1226, alla morte di suo padre, Luigi VIII. Dopo il difficile periodo della reggenza esercitata da sua madre, Bianca di Castiglia, nel 1234 luigi sposò Margherita di Provenza. Ristabilì l’ordine nel regno (vittoria di Taillebourg, nel 1242), partì per la crociata, settima nella lista tradizionale, e rimase assente sei anni. Nel 1267 prese nuovamente la croce, partì nel 1270 e morì il 25 agosto 1270 sotto le mura di Tunisi. […]

La pietà e lo spirito di mortificazione del re erano pari a quelle del monaco. L’Ufficio liturgico occupava gran parte della sua giornata e i chierici della sua cappella lo cantavano solennemente nelle ore stabilite e il re vi assisteva, recitando a bassa voce i salmi con un cappellano. Tali ore solenni comprendevano quelle del giorno, e, insieme, quelle della Vergine, cui il re, in privato, aggiungeva l’Ufficio dei morti. Anche in viaggio, la recita dell’Ufficio era assicurata per tutto il cammino e allora il re e i suoi chierici ispiravano profonda edificazione. Luigi assisteva ogni giorno a due Messe: la prima, bassa, in suffragio dei defunti, la seconda, cantata, era quella del giorno. Talvolta se ne aggiungeva una terza verso il mezzogiorno. Ne possiamo dedurre che Luigi metteva in pratica quanto raccomandava a suo figlio: “Prega Dio col cuore e con la bocca, specialmente durante la Messa, al momento della consacrazione” (Joinville, cap. 145). A queste preghiere ufficiali, Luigi aggiungeva anche lunghe orazioni private, dopo la Compieta o, alla notte, dopo il Mattutino. In ginocchio presso un banco egli rimaneva a lungo con la testa profondamente chinata e sollevandosi con l’aspetto stanco e il viso emaciato (“spiritus ipsius eiusque visus… debilitati”), diceva talvolta: “Dove sono?” (Acta SS., p. 586). […]

A tutte queste preghiere si aggiungevano anche, ogni sera, cinquanta genuflessioni sulle due ginocchia, accompagnate ogni volta da un’Ave Maria. […]

Il re si confessava ogni venerdì e, dopo la confessione, riceveva la disciplina dal suo confessore. Per un certo periodo, questi ebbe la mano piuttosto pesante: il re non se ne dolse mai, anzi ne parlò ridendo con il confessore successivo, cui rimproverava la troppa indulgenza. Si comunicava sei volte l’anno… e si accostava all’Eucaristia col massimo rispetto. […]

I digiuni del re erano numerosi e rigorosi. Digiunava durante l’Avvento, la Quaresima e nei dieci giorni tra l’Ascensione e la Pentecoste, senza contare le Quattro Tempora e le diverse vigilie. Digiunava anche di venerdì e, in certe circostanze, si accontentava di pane e acqua. Aveva persino modificato a suo uso i giorni di astinenza. […]

Tutte queste penitenze che, inoltre, andavano unite a una vita molto attiva, parvero eccessive alla sua corte ed egli acconsentì a ridurle […]. Ma, come nota giustamente uno dei suoi biografi, l’ideale della penitenza era sempre presente nella sua vita. […]

Le opere di misericordia di Luigi non sono meno celebri delle sue penitenze. Egli amava e rispettava i poveri, i malati e quei religiosi che volontariamente si erano fatti poveri (ad esempio , i Francescani, i Domenicani e i Cistercensi). Non soltanto le sue elemosine furono ingenti e numerose le sue istituzioni benefiche, ma egli costantemente pagava di persona, abituando i suoi figli ad imitarlo. Tra le testimonianze dei contemporanei in questo campo non vi è che l’imbarazzo della scelta. Ogni giorno egli nutriva centoventi poveri e spesso tale cifra saliva a duecento. Tra costoro, più volte in una settimana, tredici beneficiati erano serviti personalmente dal re. Ogni sabato egli lavava i piedi a tre poveri, stando in ginocchio davanti a loro, poi offriva l’acqua perché si nettassero le dita e baciava loro la mano. Tre poveri mangiavano sempre alla sua tavola e, in Quaresima, il loro numero era di tredici. […]

Il rispetto verso i morti gli ispirava atteggiamenti consimili. A Compiègne egli assistette ai funerali di un povero, morto in ospedale; a Sidone, in Terrasanta, dove un’incursione musulmana aveva causato molti morti tra i cristiani, il re ordinò di costruire un cimitero e quindi, dando per primo l’esempio, fece trasportare i corpi in decomposizione nella loro sepoltura. […]

Si può ora concludere: la pietà, l’austerità, la carità di Luigi hanno qualcosa di semplice e di evangelico. Si ha l’impressione di una grande coerenza dal momento del battesimo ricevuto a Poissy (egli amava firmare: Luigi di Poissy) fino alla morte davanti a Tunisi, dove fra le ultime parole disse: “Noi andremo a Gerusalemme!”, frase che alludeva allo scopo della crociata e, insieme, alla meta della sua vita, la Gerusalemme celeste. […]

Già durante la vita, la fama di santità di Luigi era grande. Al ritorno in patria delle sue spoglie si verificarono miracoli in Italia e in Francia. Dopo un’inchiesta iniziata nel 1273, fu canonizzato nel 1297 da Bonifacio VIII. […]. La festa del santo re fu fissata al 25 agosto.

(Henri Platelle in Bibliotheca Sanctorum, vol. VIII)

 

PREGHIERA

Dio onnipotente ed eterno,
che avete stabilito l’impero dei Franchi
per essere nel mondo lo strumento della vostra divina volontà,
la spada e lo scudo della vostra santa Chiesa,
vi preghiamo, prevenite sempre e ovunque
con la vostra celeste luce
i figli che vi supplicano,
affinché vedano ciò che bisogna fare
per realizzare il vostro regno in questo mondo;
per compiere poi ciò che hanno veduto,
siano colmi di carità,
di forza e di perseveranza.
Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

BEATO PIO IX, PAPA

(7 febbraio)

Dal Martirologio Romano – 7 febbraio

A Roma, beato Pio IX, papa, che, proclamando apertamente la verità di Cristo, a cui aderì profondamente, istituì molte sedi episcopali, promosse il culto della beata Vergine Maria e indisse il Concilio Ecumenico Vaticano I.

Riferimenti storici

Giovanni Maria Mastai Ferretti nacque a Senigallia il 13 maggio 1792. Dopo la prima educazione avuta nella sua città natale fu mandato a Volterra dove, presso gli Scolopi, iniziò il corso di studi che completò a Roma al Collegio Romano. Fino al marzo del 1816 rimase incerto circa l’orientamento da dare alla sua vita ma, dopo questa data, pur tra tanti disagi e molte difficoltà familiari, continuò la sua preparazione scolastica con un’interruzione durante l’invasione dello Stato Pontificio da parte delle forze napoleoniche, ma con la ferma decisione di farsi sacerdote. Superati i molti ostacoli e soprattutto quello costituito dalla sua malferma salute, il 10 aprile 1819 ricevette l’ordinazione sacerdotale.

Già dal 1815 aveva incominciato il suo apostolato lavorando in mezzo ai giovani dell’ospizio “Tata Giovanni”, del quale più tardi divenne rettore. Durante questo soggiorno romano, Pio VIII ebbe modo di conoscere e apprezzare le doti di mente e di cuore del giovane Mastai e, nel 1823, lo inviò in Cile in qualità di uditore al seguito di Mons. Giovanni Muzi, delegato apostolico presso le Repubbliche del Cile e del Perù. Durante la sua permanenza in America Latina si trovò a contatto con una società in evoluzione, profondamente turbata dai moti rivoluzionari al tempo dell’emancipazione del dominio spagnolo.

Resasi inutile e pressoché impossibile la permanenza della rappresentanza pontificia in quelle nazioni, anche il Mastai rientrò in Italia e riprese la direzione del “Tata Giovanni”, fino a quando Leone XII lo nominò rettore dell’ospizio di San Michele a Ripagrande e segretario dei conservatori di Roma.

Il 24 maggio 1827 fu preconizzato arcivescovo di Spoleto. […] Con zelo e saggezza intraprese il governo dell’illustre diocesi facendo rifulgere ovunque la bontà del suo animo, la sua grande carità e la mansuetudine del suo cuore. Riformò gli istituti di educazione e si adoperò con energia, soprattutto per mezzo degli esercizi spirituali, perché rifiorisse il buono spirito nel clero. Nel concistoro del 17 dicembre 1832, Gregorio XVI lo trasferì alla sede vescovile di Imola, dove continuò il programma pastorale che a Spoleto aveva dato tanti lusinghieri risultati. La stima che seppe guadagnarsi in breve tempo presso il popolo e presso la Sede Apostolica fu tanta che Gregorio XVI lo volle onorare della sacra porpora, creandolo cardinale dei Santi Marcellino e Pietro il 14 dicembre 1840. In quello stesso giorno un suo antico maestro, il celebre can. Graziosi, avrebbe esclamato: “Oggi abbiamo fatto il Papa”.

Incline per temperamento e per formazione al perdono e alla conciliazione, durante il suo soggiorno a Imola si radicò sempre più nel convincimento della necessità, per quanto concerneva il problema politico, che il governo fosse aggiornato ai bisogni dei tempi, fermo restando il principio che lo Stato Pontificio, proprietà della Chiesa, rappresentava una garanzia insostituibile della libertà nel governo spirituale. La Provvidenza lo portava così, attraverso una multiforme esperienza, ai supremi fastigi della Chiesa: il 16 giugno 1846 fu eletto papa per acclamazione e prese il nome di Pio IX. Un mese dopo l’elezione, accogliendo le aspirazioni comuni del popolo, concesse l’amnistia ai fuorusciti, ai condannati e agli accusati politici degli Stati Pontifici; istituì un Comitato per l’introduzione delle strade ferrate e un Comitato per la riforma della pubblica amministrazione; confermò la Consulta voluta da Gregorio XVI per la revisione della procedura e del codice civile; promosse una Consulta elettiva, composta dai deputati di Roma e delle provincie e, finalmente, diede nuove norme a garanzia della libertà di stampa. Questi provvedimenti furono accolti con entusiasmo generale, ma le correnti liberali li vedevano soltanto come primi passi verso sempre maggiori riforme e soprattutto come premesse a uno schieramento del papa contro l’Austria in vista della liberazione e unificazione dell’Italia. Pio IX il 14 marzo 1848 concesse lo “Statuto fondamentale” che apriva l’era del governo rappresentativo, tuttavia rifiutò di scendere in guerra contro l’Austria a fianco del Piemonte.

L’allocuzione del 29 aprile 1848, nella quale il papa affermò solennemente di non volere dichiarare guerra all’Austria, segnò l’inizio di una crescente ostilità che portò all’uccisione di Pellegrino Rossi (15 novembre 1848), alla fuga di Pio IX da Roma (24 novembre 1848) e all’instaurazione della Repubblica Romana. Rientrato a Roma con l’aiuto dei Francesi, Pio IX riprese il governo dello stato con straordinario vigore, restaurando le finanze e realizzando opere pubbliche di grande respiro, promuovendo ancora riforme liberalizzatrici della vita pubblica, pur avendo ritirato lo Statuto. Il Liberalismo anticlericale, tuttavia, non desisteva dalla sua lotta alla Chiesa. Nel Regno di Sardegna, dopo l’approvazione delle leggi Siccardi (1850), che più tardi furono estese alle altre regioni italiane, si ebbero deportazioni di vescovi, incarcerazioni di molti sacerdoti, soppressione degli Ordini religiosi e incameramento dei beni ecclesiastici. […]

Pur preso da tante preoccupazioni, che sconvolsero la vita religiosa di molti paesi europei, Pio IX si interessò intensamente al progresso degli studi ecclesiastici, accordando protezione e vivissimo interesse alle ricerche archeologiche, sia profane sia cristiane. […]. Un’iniziativa da ricordare è la fondazione, nel 1853, del Seminario Pio, presso il quale erano ammessi i migliori giovani aspiranti al sacerdozio provenienti dagli Stati pontifici.

Il 23 luglio 1847, con il breve Nulla celebrior, ricostituì in Gerusalemme il Patriarcato Latino e, con il breve Cum multa sapienter del 24 gennaio 1868, riformò l’Ordine Equestre del Santo Sepolcro.

Nel campo strettamente religioso, il regno di Pio IX fu un’esaltazione del soprannaturale contro il razionalismo e il naturalismo e una riaffermazione del principio dell’autorità. Gli atti pontifici, i discorsi, le encicliche papali esprimono chiaramente la sensibilità ai problemi del tempo, del papa che, contrariamente ad avventati giudizi, ebbe sempre una limpida visione della situazione e seguì con decisa fermezza la strada che gli era suggerita dal suo altissimo ufficio.

La definizione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854) si inserì nel programma del suo magistero infallibile, proprio come un’affermazione della preminenza del soprannaturale e con il fondamentale significato di richiamare gli uomini a riflettere sulla propria limitatezza, in un tempo in cui la ragione si levava contro ogni autorità umana e divina.

Già nel 1853 Pio IX aveva pensato a una solenne denuncia degli errori moderni e, nel 1862, presentò ai vescovi una serie di proposizioni che sarebbero dovuto essere condannate e tale condanna si ebbe con l’enciclica Quanta cura, insieme alla quale fu presentata una serie di ottanta proposizioni erronee divise in dieci rubriche, che costituì il celebre Sillabo (8 dicembre 1864). […]. Questo documento rappresentò una presa di posizione coraggiosa contro il dilagare dell’errore che tante funeste ripercussioni aveva nella società.

La caduta del governo papale nelle Legazioni e nell’Umbria (1859), che furono annesse al Piemonte, furono occasione del riacutizzarsi della tensione nei rapporti tra la Santa Sede e lo Stato sabaudo. Pio IX comprese bene le reali intenzioni dei responsabili della politica piemontese e in nome del diritto e della storia riaffermò la necessità del dominio temporale solo per garantire la libertà e l’indipendenza del romano pontefice nel suo ministero spirituale. In questa luce anche il Concilio Vaticano I (1869-1870) apparve come un avvenimento provvidenziale.

Questa assise ecumenica, infatti, fu voluta da Pio IX per riaffermare, davanti al mondo moderno, la validità della dottrina cattolica e per dare al mondo la dimostrazione della vitalità della Chiesa, il cui magistero restava l’unica fonte di verità, capace di ridare alla società moderna i veri principi di giustizia e di libertà sui quali si sarebbe dovuto fondare il nuovo progresso. […]. Il fine del concilio trascendeva gli interessi limitati ai rapporti della Santa Sede con il governo italiano nel frattempo costituitosi e Pio IX aveva ben chiara avanti a sé la visione dei bisogni del modo cattolico. Quanto ai pericoli e alle responsabilità, questi erano condivisi interamente dall’episcopato […]. La definizione del dogma dell’Infallibilità pontificia (18 luglio 1870), che fu il frutto più bello del Concilio Vaticano I, segnò anche l’apice del pontificato di Pio IX.

Dopo la presa di Roma (20 settembre 1870), Pio IX si rinchiuse in volontaria prigionia, condannando la legge delle Guarentigie e respingendo la dotazione annua assegnatagli, mentre massoneria e anticlericali continuavano la loro campagna, ostacolando ogni tentativo di riconciliazione.

Nonostante le molte limitazioni impostesi con la volontaria prigionia […] il suo ministero apostolico non conobbe soste, anche quando la tarda età e le malattie si facevano sentire con particolare crudezza.

Morì nel palazzo apostolico in Vaticano il 7 febbraio 1878. Avendo manifestato il desiderio di essere sepolto nella basilica di San Lorenzo al Verano, la notte del 13 luglio 1881, durante il trasporto della sua salma, una masnada di facinorosi inscenò una dimostrazione ostile che culminò con il tentativo di gettare i resti del papa nel Tevere.

Le critiche più feroci, le calunnie più gravi che furono mosse alla sua persona e al suo governo non scalfirono l’amore e la venerazione che il popolo veramente cristiano portò sempre a Pio IX che fu, ancora vivente, considerato come un santo. Subito dopo la sua morte, da molte parti del mondo fu chiesto che fosse introdotta la causa di beatificazione. […]. Circa settecentoquaranta associazioni cattoliche presentarono a Leone XIII una lettera postulatoria perché si desse l’avvio alla causa di Pio IX. Uguale richiesta fu avanzata dall’episcopato lombardo-veneto e da altri episcopati italiani e stranieri, da singoli vescovi e da personalità laiche. Solo sotto il pontificato di San Pio X, l’11 febbraio 1907, si diede inizio al regolare processo di beatificazione e canonizzazione del servo di Dio. Il processo apostolico si aprì il 28 giugno 1955.

Ne è stata riconosciuta l’eroicità delle virtù in data 6 luglio 1985; in seguito all’approvazione, in data 20 dicembre 1999, di un miracolo attribuito alla sua intercessione, è stato beatificato in Roma da Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000.

(Ottorino Alberti in Bibliotheca Sanctorum, vol. X e seconda appendice)

 

PREGHIERA

Signore Dio nostro,
che in tempi di grandi trasformazioni culturali e sociali
hai guidato il cammino della tua Chiesa
affidandola al sicuro magistero,
all’infaticabile zelo apostolico
e alla fervida carità del tuo servo il beato Pio IX,
ti chiediamo umilmente,
per l’intercessione della Vergine Santa
ch’egli proclamò Immacolata,
di confermare la nostra fede,
di alimentare la nostra speranza
e di rinvigorire la nostra carità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

BEATO ANDREA CARLO FERRARI, VESCOVO

(2 febbraio)

Dal Martirologio romano – 2 febbraio

A Milano, beato Andrea Carlo Ferrari, vescovo, che valorizzò la tradizione religiosa del suo popolo e aprì nuove vie per far conoscere nel mondo Cristo e la carità della Chiesa.

Riferimenti storici

Nacque a Lalatta, frazione di Pratopiano, nella diocesi di Parma, il 13 Agosto 1850 da Giuseppe e Maddalena Longarini. Nel 1861 fu accolto nel seminario di Parma per i primi studi ecclesiastici. Il 19 dicembre 1873 fu ordinato sacerdote e il 21 dello stesso mese celebrò la sua prima Messa nel santuario della Madonna di Fontanellato.

Nel febbraio 1874 fu nominato parroco di Mariano, paese presso Parma. Il 2 luglio dello stesso anno divenne coadiutore dell’arciprete di Fornovo di Taro. Nell’autunno del 1875 fu destinato vicerettore del seminario di Parma e professore di fisica e matematica. Nel 1877 divenne rettore del medesimo seminario dove, dal 1878, insegnò teologia fondamentale, storia ecclesiastica e teologia morale. Nel 1885 pubblicò una Summula theologiae dogmaticae generalis. Il 29 maggio 1890 fu eletto vescovo di Guastalla e fu consacrato a Roma dal card. Parocchi. Il 29 maggio 1891 fu trasferito alla sede di Como dove si distinse per lo zelo, che lo portò a visitare tutta la vastissima diocesi. Nel concistoro del 18 maggio 1894 fu creato cardinale prete del titolo di s. Anastasia e il 21 dello stesso mese nominato arcivescovo di Milano. Fu allora che assunse accanto al suo nome di battesimo, Andrea, anche quello di Carlo in onore di s. Carlo Borromeo.

Nel marzo 1895 iniziò la sua prima visita pastorale dell’arcidiocesi, che ripeté cinque volte, non trascurando le parrocchie alpine. Durante le visite rivolgeva più volte la parola ai fedeli, faceva l’esame della dottrina cristiana ai fanciulli, amministrava la Cresima e distribuiva l’Eucaristia, spesso consacrava chiese. Celebrò il sinodo diocesano, che non si teneva dal 1687, nel 1902 e ancora nel 1910 e nel 1914, mentre nel 1906 adunò il concilio provinciale. Volle inoltre diversi congressi: quello eucaristico (1-5 settembre 1895), il XV Congresso della Musica Sacra, che fece conoscere il nome di Lorenzo Perosi in occasione delle feste per il XV centenario della morte di s. Ambrogio (maggio-dicembre 1897). Celebrò solennemente il cinquantesimo anniversario del dogma dell’Immacolata (1904) e delle apparizioni di Lourdes (1908) e nel 1910 organizzò le feste per il terzo centenario della canonizzazione di s. Carlo celebrando anche in quell’occasione un sinodo e un congresso catechistico. Nel 1913 promosse le “Settimane Costantiniane”, a ricordo del centenario dell’editto di Costantino.

Il beato arcivescovo Ferrari s’interessò anche ai problemi sociali e, in omaggio all’enciclica di Leone XIII Rerum novarum, istituì in Seminario la cattedra di economia sociale. Sotto il suo impulso, il clero si dedicò con entusiasmo alle opere sociali (casse rurali, società di mutuo soccorso, leghe operaie, agricole, ecc.).Anche la stampa cattolica diocesana ebbe le cure dell’arcivescovo: essa era rappresentata da due quotidiani in lotta fra loro: L’Osservatore Cattolico, fondato e sostenuto da don Davide Albertario e La Lega Lombarda, che si diceva di tendenza non intransigente. Il beato tentò la fusione dei due giornali con la fondazione de L’Unione che si chiamò poi L’Italia.

Durante la campagna antimodernista il cardinale, così ossequiente alle direttive della Santa Sede, fu sospettato di deviazionismo e, come tale, pubblicamente attaccato da intransigentissimi giornali cattolici quali La Riscossa di Vicenza e La Liguria di Genova: nell’accusa furono coinvolti il seminario e il clero: né le precisazioni dell’arcivescovo, né le lettere di molti vescovi e cardinali servirono a chiarire l’equivoco: il cardinale allora si chiuse nel silenzio e nella preghiera aspettando che l’ora delle tenebre passasse. Il nuovo pontefice, Benedetto XV, consolò l’arcivescovo, ma ormai un’altra tribolazione aveva colpito il Ferrari: la prima guerra mondiale, che intralciava l’opera di riordino dell’arcidiocesi. Durante il periodo bellico il cardinale si dedicò alla più attiva carità verso gli orfani, le vedove, le famiglie disagiate, i soldati, i prigionieri, e nella ricerca dei dispersi. Si dissipò anche quel pregiudizio, che faceva apparire il Ferrari come antipatriota, perché sempre rigorosamente ligio a tutte le disposizioni pontificie nel conflitto per la “Questione romana”.

Dopo la guerra comparvero i primi sintomi della malattia che lo doveva condurre alla morte. L’arcivescovo tentò di lavorare fino all’ultimo e quando dovette mettersi definitivamente a letto, il popolo milanese pellegrinò alla sua stanza per ricevere ancora una volta la benedizione del suo pastore.

Morì santamente al tramonto del 2 febbraio 1921 e fu sepolto nel duomo all’altare Virgo Potens.

Il risultato del suo governo pastorale fu la concordia ricondotta nella diocesi, la formazione di un ottimo clero, del quale fu educatore eccellente, l’aggiornamento dei metodi pastorali, il rinvigorimento del senso cristiano del popolo.

Negli ultimi tempi della sua vita attese alla costruzione dell’Università Cattolica e alla fondazione di quell’opera di assistenza sociale che da lui prese il nome: l’Opera Card. Ferrari.

Nel 1951 fu iniziato presso la curia arcivescovile il processo canonico per la beatificazione. Il card. Schuster così si espresse in un discorso: “Se ancora vigesse l’antica disciplina ecclesiastica, che permetteva ai fedeli, cioè alla Chiesa vivente, la canonizzazione dei Santi, certo a quest’ora il Card. Ferrari lo vedremmo sollevato alla gloria degli altari, vicino a S. Carlo”. L’introduzione della Causa presso la S. Congregazione dei Riti a Roma fu firmata da Giovanni XXIII l’11 febbraio 1963 e sottolineata da un discorso elogiativo.

Ne è stata riconosciuta l’eroicità delle virtù in data 1° febbraio 1975; in seguito all’approvazione, in data 10 novembre 1986, di un miracolo attribuito alla sua intercessione, è stato beatificato in Roma da Giovanni Paolo II il 10 maggio 1987.

(C. Marcora in Bibliotheca Sanctorum, vol. V e seconda appendice)

 

PREGHIERA

O Dio,
che edifichi la tua Chiesa col dono dello Spirito
e il ministero di santi pastori,
concedi ai tuoi fedeli,
riuniti per celebrare con gioia la memoria del vescovo Andrea Carlo,
di essere testimoni sinceri di Cristo
e di rinnovare il mondo con la forza del suo Vangelo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

BEATO ALFREDO ILDEFONSO SCHUSTER, VESCOVO

(30 agosto)


Dal Martirologio Romano – 30 agosto

A Venegono vicino a Varese, transito del beato Alfredo Ildefonso Schuster, vescovo, che, da abate di san Paolo di Roma elevato alla sede di Milano, uomo di mirabile sapienza e dottrina, svolse con grande sollecitudine l’ufficio di pastore per il bene del suo popolo.

Riferimenti storici

Nacque a Roma, nell’ospedale di S. Giovanni in Laterano, il 18 gennaio 1880. Il padre Giovanni (1819-89), oriundo di Lindau (Baviera), era stato caposarto degli Zuavi pontifici e aveva sposato in terze nozze, il 23 aprile 1879, Maria Anna Tutzer (1849-1912), oriunda di Bolzano […]. Fu battezzato due giorni dopo nell’ospedale stesso con i nomi di Ludovico Alfredo Luigi, il secondo dei quali finirà per prevalere finché non sarà mutato in quello monastico di Ildefonso. […].

Rimasta senza capo (1889), la sua povera famigliola viveva col sussidio delle dame della Conferenza di S. Vincenzo. Per poter continuare gli studi il piccolo Alfredo, dietro interessamento del colonnello delle Guardie Svizzere, barone Pfeiffer, entrò nell’alunnato monastico dell’abbazia benedettina di S. Paolo fuori le Mura nel novembre 1891. Il 12 novembre 1898 iniziò il noviziato e il 13 novembre 1899 emise la professione semplice. Il 30 ottobre 1900 iniziò a frequentare il corso di filosofia presso il collegio benedettino di S. Anselmo, sull’Aventino, e lo concluse con la laurea brillantemente conseguita il 28 maggio 1903. Nel frattempo aveva professato i voti solenni (13 novembre 1901) ed era stato ordinato suddiacono dal card. Pietro Respighi, vicario di Roma, nell’Arcibasilica Lateranense (13 marzo 1903). Dallo stesso prelato ricevette, sempre in S. Giovanni in Laterano, il diaconato (6 giugno 1903) e il presbiterato (19 marzo 1904): contemporaneamente al corso filosofico egli aveva, infatti, compiuto gli studi teologici preparatori al sacerdozio. Celebrò la sua prima messa in S. Paolo la domenica 20 marzo 1904. […].

Fin dai primi anni di scuola dimostrò una grandissima inclinazione per l’archeologia cristiana, la liturgia, la storia monastica e l’arte sacra e a questi studi dedicherà tutti i suoi momenti liberi, anche in mezzo alle gravi responsabilità pastorali sopraggiunte, fino al termine della vita. […]. Il tempo dedicato agli studi prediletti doveva però venire da lui sottratto, spesso con grave sacrificio, alle ore normalmente dedicate al riposo, giacché ben presto gli furono affidati numerosi incarichi: maestro dei novizi (1908), procuratore generale della Congregazione Benedettina Cassinese e priore claustrale del suo monastero (1915). Nel contempo insegnava liturgia alla Scuola Pontificia di Musica Sacra, storia ecclesiastica nel collegio di S. Anselmo e ancora liturgia presso il Pontificio Istituto Orientale. Divenne, inoltre, consultore della S. Congregazione dei Riti, dapprima presso la sezione liturgica (1914), poi anche presso quella delle cause di beatificazione e canonizzazione (1918). […].

Il 26 marzo 1918 la comunità monastica di S. Paolo eleggeva a nuovo abate il priore Ildefonso Schuster che, il 14 aprile successivo, riceveva la benedizione abbaziale dal card. Basilio Pompili, vicario di Roma. […].

Ebbe ulteriori incarichi: preside dell’Istituto Orientale (1919), visitatore apostolico di monasteri e di seminari italiani, presidente del Capitolo generale delle Congregazioni Camaldolesi di Toscana e di S. Gregorio al Celio (1923), presidente della pontificia commissione per l’arte sacra (1924).

Il 26 giugno 1929 Pio XI lo nominava arcivescovo di Milano, annunciandogli in pari tempo che lo avrebbe creato cardinale nel concistoro segreto del 15 luglio seguente. La domenica 21 luglio il Papa lo consacrava personalmente nella Cappella Sistina, imponendogli subito dopo il pallio arcivescovile. Una settimana prima, il 13 luglio, il neoeletto arcivescovo aveva emesso il giuramento di fedeltà al capo dello Stato, esigito dai recentissimi Patti Lateranensi. Era la prima volta che ciò avveniva, dopo la conciliazione fra la Chiesa e lo Stato italiano.

Il lealismo politico del nuovo arcivescovo di Milano, che in qualche modo traeva la sua ispirazione dall’atteggiamento di S. Ambrogio verso l’Impero romano, si trasformò tuttavia in opposizione ferma e coraggiosa tutte le volte che fu messa in causa la libertà della Chiesa. Qualche storico ha potuto così parlare di ispirazione borromaica nell’atteggiamento politico del cardinale, emulo di S. Carlo non solo nello zelo pastorale, nella carità verso i poveri, nell’austerità della vita, ma altresì nell’intransigenza ogni qualvolta erano in gioco la superiore missione della Chiesa e il bene delle anime. […].

Gli anni duri della Seconda Guerra mondiale videro il cardinale coraggiosamente impegnato nel soccorrere tutte le miserie provocate dal conflitto, senza distinzione di parte; incoraggiò il clero che aiutava gli ebrei perseguitati a mettersi in salvo, così come, dopo la liberazione di Milano, si adoperò per sottrarre molti ex fascisti alla giustizia sommaria dei vincitori. Rimasto intrepido al suo posto nella città occupata dalle truppe tedesche e continuamente bombardata dagli angloamericani, svolse una delicatissima opera di mediazione fra le due parti, salvando la città da ulteriori rappresaglie e devastazioni. Lo stesso Mussolini avrebbe potuto aver salva la vita se si fosse consegnato nelle sue mani, tanto era il prestigio che l’eroico arcivescovo si era conquistato agli occhi di tutti. Passata la bufera della guerra, si consacrò con grande energia alla ricostruzione morale e anche materiale della sua vastissima diocesi, riorganizzando la vita sociale e religiosa delle parrocchie, da lui continuamente visitate con una perseverante periodicità, che non aveva conosciuto soste neppure durante i momenti più difficili della guerra.

La sua attività durante i venticinque anni trascorsi a Milano si può riassumere in queste cifre: 5 visite pastorali all’intera diocesi; 5 sinodi diocesani; 1 concilio provinciale; consacrazione di 275 chiese e di 154 altari; ordinazione di 21 vescovi e di 1265 sacerdoti. Il futuro papa Giovanni XXIII, che in qualità di patriarca di Venezia ne tessé l’elogio funebre, non esitò ad affermare che egli aveva superato in attività esteriore perfino i più zelanti fra i suoi predecessori, cioè S. Carlo e il card. Ferrari.

Malgrado tanto lavoro apostolico egli non rallentava in nulla il suo impegno ascetico fatto di preghiera, di penitenza, di studio assiduo, conservando nella dignità cardinalizia l’austerità propria del monaco.

Nel dopoguerra la sua attività, che privilegiava in modo esclusivo il servizio alla diocesi, si estese anche al di fuori, in ossequio alla volontà del papa Pio XI, che lo inviò come suo legato ai congressi eucaristici nazionali di Assisi (1951) e di Torino (1953) e alla ricognizione della salma di S. Gregorio VII a Salerno (12 luglio 1954). Da quest’ultima missione ritornò in diocesi stremato, ma volle ugualmente proseguire, nonostante il caldo dell’estate, la visita pastorale nella pieve di Missaglia.

Ritiratosi nel seminario di Venegono Inferiore (Varese) per un breve periodo di riposo, vi morì quasi improvvisamente all’alba del 30 agosto 1954, alla vigilia dei solenni festeggiamenti che l’intera diocesi si preparava a tributargli l’8 settembre successivo per il suo doppio giubileo sacerdotale ed episcopale.

Congedandosi dai suoi seminaristi lasciò loro queste parole: “Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio. Ricordate le folle intorno alla bara di don Orione? Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi. Ha paura, invece, della nostra santità”.

Una folla immensa fece ala commossa al passaggio del feretro che ne trasportò la salma da Venegono a Milano confermando che “quando passa un santo, tutti accorrono al suo passaggio”. Lì, il 12 settembre, si svolsero i solenni funerali terminati con la tumulazione nel duomo.

[…] Il popolo lo acclamò santo mentre era ancora in vita e, dopo la sua morte, tale fama è andata crescendo, nonostante la discutibilità di certi suoi atteggiamenti sia politici sia pastorali, giustificabili con la sua innata inclinazione a un certo rigorismo.

Nel 1957, a soli tre anni dalla morte, l’arcivescovo Giovanni Battista Montini diede ufficialmente inizio al processo di beatificazione, conclusosi il 31 ottobre 1963. Il 5 marzo 1970 la S. Congregazione per le Cause dei Santi ha emanato il decreto sugli scritti del servo di Dio.

Ne è stata riconosciuta l’eroicità delle virtù in data 26 marzo 1994; in seguito all’approvazione, in data 11 luglio 1995, di un miracolo attribuito alla sua intercessione, è stato beatificato in Roma da Giovanni Paolo II il 12 maggio 1996.

(Giovanni Spinelli, in Bibliotheca Sanctorum, prima e seconda appendice)

 

PREGHIERA

Padre origine di ogni bene,
noi ti lodiamo e ti ringraziamo
perché nel beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster
ci hai donato e fatto conoscere un pastore mansueto e infaticabile,
uomo “tutto preghiera”, testimone della pace che tu solo sai donare.
Gesù, Figlio di Dio,
tu sei stato per il cardinale Schuster modello di vita:
per tuo amore fu servo appassionato di tutti,
consumando ogni giorno della sua esistenza
perché ciascuno potesse trovare te, Signore della vita, della pace e della gioia.
Il suo esempio ci stimoli e la sua preghiera ci accompagni,
perché anche noi doniamo la vita al servizio di ogni essere umano.
Spirito dell’amore,
che ci rendi santi, concedici di raccogliere il suo invito alla santità.
Rendici capaci, come lui lo è stato, di amare i poveri, i dimenticati, i perseguitati;
donaci la forza di dialogare con tutti,
con la fiducia di scoprire in ogni cuore il seme germogliante del tuo amore. Amen.